Burkina 5 anni dopo

A gennaio sono tornata in Burkina Faso, 5 anni dopo l’ultimo viaggio.

La principale differenza da 5 anni a oggi è il motivo per cui ho desiderato fare questo viaggio è che ora ho a che fare con il Burkina praticamente ogni giorno perché lavoro in una ONG che opera in questo paese.
Avevo bisogno di tornare a vedere il mio Burkina, e non solo di farmelo raccontare, leggere i report, cercare di capirlo attraverso i dati letti sullo schermo di un computer. Avevo bisogno di vedere la gente, sentire quel caldo, vivere quel tempo dilatato.

E così a gennaio ho partecipato a un nuovo “viaggio delle disgrazie” come lo chiamo io, o “viaggio di conoscenza” come si chiama in realtà, perché permette ai partecipanti di vedere e sentire, anche se solo per pochi giorni, la realtà di un paese molto diverso dal nostro, e di visitare progetti per i quali hanno fatto una donazione verificando così di persona come questi soldi sono stati spesi.

Nuovo viaggio e nuovo gruppo. La prima cosa bella di questi viaggi, di cui ti accorgi subito, è il gruppo: sono sempre belle persone, arrivati all’aeroporto di Parigi già lì senti tutti parte di una famiglia, gli daresti le chiavi di casa e gli racconteresti tutta la tua vita.


Lo sbarco a Ouagadougou è un po’ come un morso alla madelaine di Proust: riconosco il caldo, riconosco l’odore, riconosco la polvere. E poi la coda ai controlli, le strette di mano con gli amici venuti a prenderci, questa volta amici davvero e non facce nere amichevoli ma sconosciute.
E poi la camera stranamente familiare, anche se non mi sembra di averci mai dormito prima, ma sembra tutto uguale a cinque anni fa.
Questo viaggio è caratterizzato da lunghissimi viaggi in bus, con innumerevoli contrattempi, gomme forate, guasti incomprensibili in qualche modo riparati. E ogni volta che ci fermiamo a bordo strada (per 20 minuti o per 3 ore) tutti salutano, in molti si fermano per chiederci se serve aiuto. E il nostro incredibile autista, di cui non so neanche il nome e che non parla francese, e che una notte la passa a bordo del pulmino in panne in mezzo alla brousse, con grande calma non si mai perde d’animo, e trova pezzi di ricambio in mezzo al nulla, meccanici, motorini per andare a cercare aiuto un po’ più in là.





L’altra cosa che caratterizza questo viaggio è l’influenza: quella brutta con i febbroni da cavallo, ce la portiamo dall’Italia e ci colpisce quasi tutti. Ho avuto 39 di febbre e ho preso la tachipirina per la prima volta in vita mia. Inoltre lo smog in città è terribile, e sommato all’influenza mi regala una bella tonsillite. L’aria in città è davvero molto peggiorata, ci sono molti più motorini e macchine, e i rifiuti vengono bruciati all’aperto. Arrivando da fuori la città è avvolta da una cortina spessa di smog e traffico lento. Sembra che della modernità arrivino per prima cosa i problemi, e forse dopo i benefici.
Io in versione terrorista con la mascherina per lo smog >.<
Ma della modernità è arrivato internet. La connessione dati con la sim locale prende quasi ovunque: a Dori, alle porte del deserto, è possibile fare una chiamata con Whatsapp a casa senza problemi. Nell’Oudalan infatti ci sono le miniere e infiltrazioni di gruppi jihadisti, e per entrambi è fondamentale la connessione internet.
Questo ci porta a una storia che ci ha fatto sorridere. Per dormire a Dori ci dicono che è obbligatorio prendere la scorta, cosi ci fermiamo alla caserma per accordarci con la gendarmeria. Arrivo con il primo pick up, scendiamo dopo un viaggio di 5 o 6 ore e un militare ci chiede i passaporti e ci fa gentilmente accomodare nella guardiola. Dietro di noi due persone sono sedute a terra a guardare la tv. Sono entrambi incatenati a un tavolo. E seduti su quella panca davanti al militare che si tiene i nostri passaporti in mano e il legge attentamente, ci chiediamo come sia passare una notte in cella... Comunque dopo un po’ di controlli, e un’attesa inspiegabile la scorta arriva, una camionetta con 8 militari armati di mitra, che ci scorta attraverso tutto il villaggio fino alla casa di suore dove dormiamo. Una volta arrivati si parcheggiano e fanno quello che presumo faccia normalmente una scorta: guardare il cellulare, chiacchierare, fumare sigarette, dormire a turno. Noi ceniamo e poi ci sediamo sui gradini delle stanze a chiacchierare. Verso mezzanotte uno dei militari, si avvicina e ci chiede che programmi abbiamo per il giorno dopo, perché adesso se ne vanno a dormire in caserma e torneranno domani mattina. Ma non serviva la scorta??? Non abbiamo fatto una bella sfilata per tutto il villaggio guidati dalla nostra impavida scorta in modo che anche l’ultimo dei bambini di zona sapesse che tre macchine di bianchi sono arrivati??? E ora se ne vanno? Di notte i terroristi dormono?

Questo viaggio è anche un viaggio di messe. Non vado mai a messa, non sono credente, sono profondamente agnostica, ma non sono ostile alle religioni in generale se rispettano la mia libertà, quindi partecipo con curiosità. E ne vale la pena. La religione qua riacquista il suo valore originario, offre una risposta sociale ai problemi dei credenti. Se la vita è difficile, la messa deve dare gioia. Omelie semplici e dirette che parlano in modo chiaro di cosa fare e cosa non fare per essere felici, rituali sentiti, e soprattutto canti e danze. Alla fine di ogni celebrazione, fedeli e prete, anche il vescovo se c’è, si scatenano. E immagino che sia un momento importante è liberatorio per chi vive in un mondo così difficile.


(Sì, questo è il Paolo Vallesi de "La forza della vita" che ha fatto cantare "Volare" praticamente a chiunque in Burkina)

È ancora il mio Burkina e non lo è più, perché ho uno sguardo diverso su tutto adesso, forse più professionale, ma al tempo stesso tocca qualcosa dentro di me, mette in discussione tutto quello che faccio nel mio lavoro, e quello che sono nella mia vita.

Cerco tracce che mi confermino che il mio lavoro serva a qualcosa, che gli aiuti aiutino davvero; e li trovo qua e là, ma non come mi aspetto, perché tutto è assorbito e inglobato in questo mondo caldo e polveroso, e niente assomiglia a quei numeri che leggo nei report, così semplici e inequivocabili. Le 354 studentesse del collegio di Dori, ci osservano da lontano ciucciando un sachet d’eau, si fermano a parlare a gruppetti nel cortile, cantano e ballano, ognuna di loro ha un progetto per la propria vita, delle simpatie e antipatie, va bene a matematica oppure preferisce letteratura; i 30 bambini dell’orfanotrofio di Nouna sono una bambina con un vestito da bambola, tre bambini che giocano con una lattina vuota, un neonato in collo alla sua tata che mi guarda ciucciandosi un pugnetto polveroso, tre bambine esili e flessuose che ci osservano e poi scappano ridacchiando.
Davanti al computer finiscono per essere solo numeri, giusti o sbagliati, che tornano o non tornano.

Tornare è stato bello, mi ha ricordato perché mi piace il lavoro che faccio. Ha risposto alla domanda che tutti quelli che lavorano nella cooperazione dovrebbero farsi ogni mattina, ovvero se fare cooperazione serve davvero? Sì e no. Ma voglio continuare a chiedermelo.


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