Benin, luglio 2018

Sono tornata da due giorni dal Benin, un paese che ha un pò messo in discussione l'immagine che mi ero fatta dell'Africa subsahariana. A conferma che generalizzare è sempre sbagliato, perché conoscere qualche angolo di Burkina Faso non significa conoscere l'Africa, né tanto meno l'Africa Sub-sahariana, ma nemmeno il Burkina.
In Benin c'è il mare - e basta la cartina geografica per notarlo - piove - almeno in questo periodo dell'anno -  e la vegetazione è rigogliosa. Il Benin è povero ma le città sono moderne con i grattacieli,  le spiagge attrezzate e quasi tutte le strade (del centro) pavimentate o asfaltate. In Benin il voodoo è una religione riconosciuta dallo stato e gli stregoni hanno un attestato rilasciato dal Dipartimento di residenza che li "certifica".
Ma partiamo dall'inizio.

L'arrivo è come sempre, ore d'aereo, nuovo gruppo di compagni di viaggio, senso di sballottamento e di estraneità la prima notte nella nuova camera.
La prima mattina arriva già la prima novità: piove. La terra polverosa è in realtà un pantano: male per le scarpe, meglio per la respirabilità dell'aria.


La prima giornata vediamo due delle cose che più mi colpiscono di questo viaggio: una clinica ed un carcere, uno dopo l'altro, due cazzotti nello stomaco violenti e inaspettati. Perché lo sappiamo tutti che i malati e i carcerati - soprattutto se minorenni - sono più infelici degli altri in ogni parte del mondo, ma qua lo sono ancora di più. E' inutile stare a descrivere, se ci vai lo vedi, lo senti, lo percepisci, a scriverlo si banalizza e diventa una cosa accettabile.

All'uscita dal carcere, con la faccia impastata di lacrime, sudore e sporco - perché una bambina di 14 anni detenuta ha ricevuto la visita del figlio di 2 anni, e ce lo porta a far vedere tutta sorridente. Ma in che mondo schifoso abbiamo accettato di vivere ?? - la direttrice del carcere ci offre il cellulare della polizia per rientrare al centro perché piove e a piedi è tutto un pantano. Che avranno pensato le persone che hanno visto passare un pulmino blindato del carcere pieno di bianchi??


Il giorno dopo andiamo alla Casa Famiglia, il progetto che siamo venuti a vedere. E sono altre lacrime, questa volta di gioia e sollievo, perché questi bambini - che vivevano abbandonati in strada fino a settembre - sono oggi sorridenti, sereni, accuditi. E anche qua le parole non servono a niente, ma in questo caso almeno qualche immagine posso mostrarla.



Poi ci sono altri incontri, altre visite, altri giorni di caldo, umidità, attese.
Sabato portiamo i bambini in gita a Ouidah, al mare.


Questa è la porta del non ritorno da cui partivano gli schiavi. Troviamo una guida che ci racconta la storia terrificante, disumana, abominevole, della deportazione degli schiavi, che io traduco per il gruppo. Mi chiedo cosa capiscono questi bambini, che alla loro età hanno già visto che il mondo può essere un posto brutto ma in fondo è una bruttezza dovuta principalmente alla povertà, capiranno che gli uomini possono davvero essere così disumani con altri uomini?

Ad ogni modo, presto è il momento dei giochi, del freesbee, delle biglie, del ping ping sul mare. I bambini per loro fortuna sono meravigliosi: anche se hanno un vissuto alle spalle di abbandono e miseria, bastano pochi mesi di cure e affetto e tornano ad essere bambini che giocano, ridono e si divertono.






Gli ultimi giorni li passo a Cotonou, la capitale economica. La città mi spiazza. E' una città moderna (o almeno il suo centro lo è), con palazzi e strade asfaltate, case da 700 mila euro e stabilimenti balneari. C'è dietro un enorme giro di soldi, imprese e banche cinesi, e interessi che non conosco, ed ho la sgradevole impressione che questa città non appartenga ai suoi abitanti.




Me ne riparto con il solito magone, senso di ingiustizia per questa terra così maltrattata e sfruttata da tutti, africani e europei, desiderio di una doccia che mi tolga di dosso il sudore, nuovi amici e una valigia piena di ananas, manghi e avocado per portarmi un pò del suo sapore a casa, almeno per qualche giorno.





Un viaggio così dovrebbero farlo tutti, soprattutto oggi, soprattutto chi grida all'invasione, soprattutto chi guarda con sospetto chi è diverso da sé, non tanto per vedere la miseria da cui scappano, ma per vedere, sentire e capire l'umanità, in senso lato e letterale. L'essere umano con i suoi limiti e le sue grandezze, in un ambiente così selvaggio, a volte ostile e a volte ospitale, il modo in cui si creano relazioni e legami tra noi e loro, perché in fondo che non c'è nessun noi e nessun loro.

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