Missione in Costa d’Avorio

Nuovo viaggio in Africa Occidentale, questa volta destinazione Costa d’Avorio per una missione “istituzionale”, cosa per me completamente nuova ma “Perché no, andiamo a vedere un posto nuovo, ogni lasciata è persa”.
In realtà nei giorni prima della partenza rifletto un sacco sul concetto di comfort zone: penso al mio primo viaggio in Africa, alla sfida a cui mi sono sottoposta, uno sbilanciamento totale fuori dalla mia comfort zone, che è per pigrizia molto molto limitata, sia in termini spaziali che di persone che la popolano: conoscere persone nuove mi mette sempre a disagio, trovarmi in spazi che non conosco, affrontare situazioni nuove. Ma 7 anni fa, ben cosciente di questo limite, ho scelto comunque di infrangerlo mettendomi in situazioni che sapevo mi avrebbero messo a disagio, per mettere alla prova la mia reazione.
La maggior parte delle più belle esperienze della mia vita le ho fatte in questo modo.
Con il tempo la mia pigrizia è aumentata, il limite di tolleranza pure, e lo sforzo per superarlo è ancora maggiore.
La partenza è quindi meno baldanzosa del previsto, anche perché si aggiunge l’ansia lavorativa, la missione “istituzionale” che non è proprio nelle mie corde, i compagni di viaggio che non conosco.

Ad ogni modo il 4 novembre si parte, da Bologna, dopo una pantagruelica mangiata di commiato con marito e suoceri in un’osteria vicina all’aeroporto.
Volo Air Maroc con scalo a Casablanca. Non è il primo, spero sia l’ultimo: è come viaggiare in autobus, su sedili stretti e scomodi con cibo inavvicinabile. Sulle puntualità per quanto mi riguarda non posso dire niente, ma di 3 membri della missione sono l’unica ad arrivare in orario: gli altri due - sempre volo Air Maroc ma da Roma - arrivano una con 4 l’altro con 24 ore di ritardo (e senza valigia, che arriverà misteriosamente dopo 5 giorni e rintracciata grazie a World Tracer, un sito che permette di rintracciare i bagagli persi).
Su 10 giorni in Costa d’Avorio ne passiamo 7 ad Abidjan e 3 a Bouake. 
Partiamo da Abidjan con la mia prima scoperta: non è la capitale, che è Yamoussoukro, e ci arrivo poi. Resta però la capitale economica, e, per quanto ho potuto vedere, la capitale del caos, del traffico, della confusione, di tutto ciò che rende le metropoli africane invivibili. Passiamo ogni giorno 5 o 6 ore seduti in taxi scalcinati imbottigliati in un traffico infinito, immersi in un’afa calda umida pazzesca, perché scopro anche che Abidjan si trova in una laguna e piove praticamente tutti i giorni, le temperature medie sono di 30 gradi con l’80% di umidità. Sono sudata sempre, sono sudata anche sotto la doccia, tutta la mia valigia sa di umidità e anche io so di muffa. 
E devo ringraziare la mia costituzione robusta se non mi viene la polmonite, perché in tutti gli uffici in cui entriamo - e sono tanti, perché fondamentalmente le ore di taxi caldo appiccicoso si servono per spostarci da un ufficio all’altro - c’è l’aria condizionata a 18 gradi, e ovviamente non ho mai un maglione con me.
Una boccata d’aria l’abbiamo finalmente mercoledì quando ci spostiamo a Bouake: decidiamo di fare il  viaggio in autobus di linea con aria condizionata (a -18 gradi, e indovinate un pò? Chi non ha dietro il maglione??), viaggio lungo ma tutto sommato comodo. La cosa indimenticabile è la stazione di partenza: ovviamente arriviamo tardi perché alla fine si è aggiunto un incontro istituzionale in più e perché finiamo nell’ennesimo emboutillage nel traffico, così arriviamo alla stazione verso le 17. La stazione dei bus si trova in una traversa non asfaltata di una strada in un quartiere popolare, una specie di giro sulle montagne russe trafficatissimo, con buche profonde un metro e una sorta di guado nella fogna che affrontiamo con un taxi scassatto ma intraprendente, il tutto in mezzo a carretti, motorini, bancarelle e gruppi di persone minimamente interessate al nostro passaggio. La stessa traversa viene affrontata anche dall’autobus, e confesso: sono stata con gli occhi chiusi a ripetermi “non possiamo ribaltarci, non possiamo ribaltarci, non possiamo ribaltarci”.
A Bouaké il clima è più tollerabile, caldo ma secco, e molto meno trafficato. Da Bouaké andiamo anche a vedere Yamoussoukro, la capitale.
E’ una cittadina di 250.000 abitanti (Abidjan ne ha quasi 5 milioni) e la inseriamo nel nostro giro con la scusa ufficiale di visitare il Politecnico, questo:

Questo è l’ingresso di uno dei 3 plessi.

3500 studenti provenienti da 15 paesi, laboratori ultra attrezzati, giardinetti all’inglese, le tasse non sono neanche alte mi dicono, ma la selezione è feroce, di 7000 candidati l’anno solo 650 vengono ammessi. Visitiamo il laboratorio di tecnologie alimentari, dove stanno sperimentando prodotti fatti con l’anacardo.

E apriamo una parentesi sull’anacardo, di cui prima di questo viaggio sapevo davvero poco.
L’anacardo è la nocciolina che cresce sotto la mela, che invece non si mangia, non so perché. Ma con la mela si possono fare tantissime cose: marmellate, liquori, anche il biogas. La Costa d’Avorio è uno dei principali produttori di questo frutto e la ricerca in questo settore è tanta, e chi ci accoglie e ci mostra i laboratori si scusa perché la maggior parte dei ricercatori sono ad Abidjan per il Salone Internazionale dell’Anacardo. Comunque resto davvero impressionata da questo centro di ricerca: nella cooperazione si parla sempre di trasmissione delle competenze, capacity building, inviamo tecnici per la formazione. Qua forse hanno qualcosa loro da insegnare a noi. Qualche giorno prima ad Abidjan abbiamo incontrato il vice rettore che ci aveva anticipato quello che avremmo trovato, e anche l’aspetto che è forse più critico, ovvero portare questo livello di sviluppo tecnologico sul territorio.
A Yamoussoukro ci sono poi due cose da visitare: il palazzo presidenziale e la basilica di Nostra Signora della Pace.


Il palazzo presidenziale si vede solo da fuori, da oltre il ... fossato dei coccodrilli. Sì, come ogni buon castello medievale che si rispetti, il palazzo è circondato da un fossato pieno di orrendi, grassi e perfidi coccodrilli. Se ne stanno immobili e grassi a guardarci, mi hanno raccontato che prima c’era un guardiano che ogni giorno scendeva a dargli da mangiare, li toccava, ci scherzava a beneficio dei curiosi. Poi un giorno, dopo essersene preso cura per 30 anni, è scivolato, e le creature non ci hanno pensato due volte, gli sono saltati addosso e se lo sono mangiato, davanti ai curiosi. Da allora il cibo glielo lanciano dalla balaustra. Ma quando piove le creature escono dal fossato e se ne vanno in giro per la città. Per fortuna che oggi non piove.
Mi fanno pensare ai coccodrillacci di Bianca e Bernie. Orrende, orrende creature.


E poi la basilica, costruita ad immagine di ... San Pietro.


Sì, in una sperduta cittadina ivoriana c’è una riproduzione in scala 1:1 di San Pietro (anzi, in realtà secondo Wikipedia è anche di 20 metri più alta).

Per farsi un’idea della dimensione, in fondo si vede la cupola della San Pietro ivoriana

A dire la verità non è proprio uguale all’originale, anzi, sinceramente è un mammozzone di cemento senza grazia, fatto costruire dal primo presidente ivoriano, Félix Houphouët-Boigny, in mezzo a grandi polemiche, e posso anche capirle.
A Abidjan vedo la cattedrale di San Paolo, costruita da Aldo Spirito, architetto italiano, e scusatemi, sono campanilista anche dall’altro lato del mondo, ma in questo caso si può ben dire ... Italians do it better.



Sono entrata di sgamo durante la messa della domenica, e sono restata dentro pochissimo in parte perché c’erano 12 gradi e in parte perché ogni volta che provavo a fare una foto alle bellissime vetrate sbucava qualcuno a sgridarmi.

L’ultimo giorno a Bouaké andiamo a Fronan, un villaggio a pochi kilometri, per visitare finalmente la cooperativa di donne con cui abbiamo lavorato:  è stata creata negli anni 90 da una ex infermiera per aiutare le donne del suo villaggio di origine. Per tanti anni ha lavorato molto bene, permettendo alle socie di creare un reddito extra da usare per la scolarizzazione dei figli e le cure mediche. Poi la crisi del 2011 (quella che io ho vissuto di riflesso durante il mio primo viaggio in Burkina, qua la chiamano la crisi, ma di fatto è stata una guerra civile che per 5 mesi il paese ha diviso in due) causò danni materiali alle attrezzature, ai campi, e da allora la cooperativa ha praticamente interrotto le attività, riprese a maggio nel 2017. Le donne sono ormai anziane (anche se qua il concetto di anziano è diverso dal nostro, e non è legato solo all’età: fino ad un certo punto sei giovane, poi improvvisamente diventi vecchio decrepito, la mezza età non esiste), tutte analfabete e non parlano francese. Grazie al progetto la cooperativa ha ripreso le attività, ed ora è necessario attrarre nuove forze. Facciamo una riunione in cui la nuova presidente, figlia della fondatrice, ormai troppo vecchia e quasi cieca, parla per loro: è donna giovane, imprenditrice, si è presa l’incarico di ampliare la compagine sociale e far ripartire alla grande le attività. 
Come sempre quando ho a che fare con persone con cui non posso avere una comunicazione diretta, cerco di capirle non tanto attraverso le traduzioni che mi fanno ma guardandole, e attraverso i loro occhi e le loro mani vedo gli anni di duro lavoro, di fatica, di gioie e dolori, e vedo le barriere che ci separano, che non sono solo linguistiche.


Un capitolo a parte va destinato alla guida. Ho già accennato al traffico incredibile di Abidjan, ogni spostamento prende da una a due ore, ma è la guida quella che veramente mi impressiona: sarà che sono astigmatica e ho problemi con le distanze, ma qua le macchine sfiorano di pochi centimetri macchine, persone, carretti e autobus senza decellerare e con una non chalance (o incoscienza, dipende dal punto di vista) incredibile. E per non parlare delle buche, o meglio i crateri, con l’autista che invece di rallentare sterza senza decellerare, rasentando i mezzi della corsia opposta, che siano biciclette, motorini, automobili o camion.


Cosa mi resta di questi 10 giorni in Costa d’Avorio, oltre alle infine ore di macchina, al caldo, agli incontri? La consapevolezza, ancora una volta, che l’Africa non è tutta uguale, la Costa d’Avorio è un paese che accoglie dentro di sé mondi diversi, un mondo moderno con il Carrefour, FNAC e 7 Burger King, e un mondo rurale in cui le donne sono analfabete e non parlano francese ma solo la lingua tradizionale, un mondo in cui ci sono centri di ricerca tecnologicamente avanzati, ma l’Agenzia per la formazione professionale di Bouaké non ha i fondi per formare 77 elettricisti sulla manutenzione dei pannelli solari. Lo scontro tra primo e terzo mondo qua coesiste, quello che non hai ma potresti avere lo vedi al di là della strada.
Proprio per questo la sfida dello sviluppo qua è ancora più possibile e ancora più importante, la riflessione che mi accompagna è ancora quella sul mio lavoro, sul suo ruolo, che forse non è tanto quello di fare ma quello di guardare e raccontare le cose che accadono in un mondo che sembra lontano ma che in realtà è sempre più vicino.

L’ultima sera con i miei compagni di viaggio andiamo a cena in un ristorante sulla laguna consigliato dalla Lonely Planet, assolutamente introvabile senza la guida: ci arriviamo attraversando un trafficatissimo mercato notturno, e ci troviamo in un cortile interno.


Con una cieca fiducia nella guida ci addentriamo nelle rovine di una casa e arriviamo in un bel ristorante affacciato sulla laguna, con una bellissima vista sulla città:


Nonostante la poco rassicurante risposta alla mia domanda se ci siano coccodrilli nella laguna su cui ci affacciamo (“Non tanti” ...), la serata è davvero piacevole, allietata da una leggera brezza, ed il sapore è quello dell’ultima cena delle vacanze, quando stai per lasciare il mare e gli amici dell’estate per rientrare in città a lavorare.
Ecco un altro posto di cui sentirò la mancanza.

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