Di nuovo in Burkina

Quest'anno Ouaga mi accoglie con un volto per me nuovo: piove. 

L'odore della polvere e della spazzatura bruciata si mescola all'odore degli spray anti zanzara e all'umidità. Laafi Roogo è bagnata e rigogliosa, la facce sorridenti ma niente strette di mano e testate di saluto, il covid è passato anche qua. I suoni di radio lontane si confondono con il cri cri di mille cicale e il gracidare delle rane.

La prima notte è come sempre scomoda, ma è una scomodità familiare. Le mattine iniziano all'alba, prima ancora dell'arrivo delle donne delle pulizia. Già appiccicaticcia di sudore mi affaccio sul terrazzo, e qualche volta è la tempesta che mi dà il buongiorno, qualche volte il sole del mattino.

Quello che ritrovo, e che nel 2018 non avevo trovato, è il senso di amicizia. Forse sono le persone, che l'altra volta non avevo visto e questa volta sì, forse è il fatto che siamo solo in due, non c'è il gruppo che in qualche modo ti scherma dalla vita locale, così mi sembra di ritrovare degli amici.

E' un viaggio di lavoro, con conferenze e incontri istituzionali, sedute di lavoro e valutazioni da fare. Ma un giorno ci imbuchiamo ad una cerimonia pubblica, con tanto di ministro ed ex presidente invitato, e noi salutiamo con grandi salamelecchi tutti quanti, dopo di ché ci avventiamo sul buffet e ci sediamo a mangiare all'ingresso, salutando tutti quelli che entrano come se fossimo i padroni di casa. 

Poi partecipiamo ad una cerimonia a cui questa volta siamo non solo invitati, ma quasi ospiti d'onore (e a tradimento mi mettono un microfono davanti alla faccia con un discorso da leggere a nome di qualcun altro che non è potuto venire, ma la corrente elettrica è saltata e le casse non vanno, quindi il mio discorso non lo sente nessuno e posso ritirarmi sotto il tendone in santa pace). Queste feste seguono sempre lo stesso schema: la parte che chiede più preparazione è quella dei discorsi, bisogna conoscere e seguire le rigide norme della gerarchia degli invitati, alternare i discorsi con la musica, è il momento clou dell'evento; ma poi gli invitati arrivano in ritardo e la scaletta salta, la corrente va via e gli intervalli musicali non si possono fare, e alla fine finisce tutto senza che capirci nulla, e ti ritrovi a mangiare riso e pollo ad un buffet affollatissimo. Ma fuori, sotto i tendoni dove fino ad un momento prima sedevano istituzioni, ministri e autorità, si scatena la festa. La vera festa è questa, è la festa per la gente del quartiere, con la musica a palla, la gente che balla e i cantanti che cantano a squarciagola sopra il playback. E piano piano la vera festa assorbe anche autorità e istituzioni.


Domenica andiamo a trovare la missione delle suore, e la responsabile ci chiede di tornare per fare alcuni video che potremmo usare in Italia per raccontare il suo lavoro con il sostegno a distanza. Così dopo un paio di giorni torniamo e filmiamo le ragazze dell'ufficio che ci spiegano come organizzano il lavoro, come registrano tutti i movimenti, su carta e poi su computer, perché tutto sia registrato e neanche un centesimo si perda. E poi iniziano ad arrivare le mamme. 

Quando si fanno questi viaggi ci sono dei momenti che ti rimangono dentro come lame conficcate nella carne, che non puoi dimenticare. Oggi è l'arrivo delle mamme, che con dignità e umiltà vengono a raccontare alla suora che non hanno un lavoro, o hanno sette figli e il marito è morto, o hanno una malattia che gli deforma una gamba e non riescono a lavorare abbastanza, e chiedono un aiuto per pagare l'iscrizione a scuola dei figli, o per pagare le cure mediche, o per trovare un tetto perché la casa con le piogge è distrutta. In venti minuti, forse trenta, sono una decina le storie che ci si srotolano davanti agli occhi, la suora ce le traduce tutte e poi risponde alle mamme che per questo mese non sa come aiutarle, di provare a passare all'inizio del prossimo mese. Una mamma non si allontana, resta a aggirarsi nel giardino, come indecisa, dopo un po' si riavvicina e spiega sotto voce che per stasera non sa cosa mangiare, se può ricevere almeno un po' di riso. Tutta questa sofferenza ci passa davanti agli occhi senza tragedia, senza urla o lamenti, sono donne dignitose, che parlano quasi a bassa voce, sorridenti e sommesse. 

Io lavoro per un organismo che cerca di aiutare queste persone, e so che non bisogna mai farsi impietosire dalla singola storia, l'elemosina individuale dà sollievo momentaneo ma offre un aiuto troppo a breve termine, crea storture e ingiustizie. Tutto questo lo so e lo condivido, ho visto gli effetti degli errori che si compiono quando si cerca di intervenire sul singolo, anche se con le migliori intenzioni. Ma sapere tutto questo non attenua la sofferenza di quei venti minuti, forse trenta, di quelle storie terribili che in quel posto diventano così normali. Ed è senso di ingiustizia, di tradimento, di frustrazione perché non è giusto, ma nessuno lo sa e a nessuno importa. E non è giusto.

Il giorno della partenza finiamo l'ultima seduta di lavoro alle 19, alle 20 dobbiamo essere in aeroporto e dobbiamo ancora chiudere le valigie, farci una doccia e cenare con tutti gli amici che sono venuti a salutarci. Incredibilmente pochi minuti dopo le 20 siamo in macchina, con le valigie chiuse, abbiamo salutato tutti, ringraziato per l'ospitalità e per il lavoro svolto, chiuso gli ultimi conti e corriamo in aeroporto. E poi la macchina perde una ruota. Letteralmente, durante la corsa, una ruota si stacca e rotola via. L'autista salta giù di macchina e si butta a terra a fare non so cosa con il mozzo, mentre io e il mio collega cerchiamo di fargli luce con il telefonino. Siamo in mezzo a una strada sterrata larga 5 metri davanti ad un incrocio, e tempo cinque minuti arrivano 4 tir che devono entrare o uscire da quella strada, ma la macchina è sempre senza ruota, e l'autista è sempre sotto la macchina che spiccona per far posto al cric (credo). E in un momento si crea un ingorgo di tir, di notte su questa strada sterrata, in mezzo ai motorini e ai gruppetti di bambini che ci guardano ridacchiando. E poi, come un miracolo, passa una nostra amica con la macchina, e ci chiede se vogliamo un passaggio all'aeroporto. 

E così alle nove meno qualcosa siamo in aeroporto, lasciamo i bagagli, facciamo i controlli (tanti controlli), e aspettiamo di imbarcare e di tornare di nuovo a casa. Al mio letto comodo, alla mia doccia calda, ai miei gatti, alla mia normalità. 

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